Qual è l’impronta ecologica dell’industria della moda?

Qual è l’impronta ecologica dell’industria della moda?

Recenti studi e report analizzano quanto la produzione di capi d’abbigliamento consumi a livello di acqua e quanto incida sull’inquinamento ambientale

MILANO – Stiamo iniziando a sentir sempre più parlare dell’inquinamento prodotto dall’industria del fashion, soprattutto fast, ma quanto sappiamo del suo impatto sulle risorse idriche? Ciò che deriva dalla produzione dei capi d’abbigliamento non solo danneggia l’ambiente ma contribuisce alla diminuzione di una delle risorse più importanti per l’essere umano: l’acqua. La moda è una delle industrie a maggior consumo di risorse idriche: dal 2020 ne ha utilizzate 79 trilioni di litri ogni anno. Vediamo nello specifico in che modo ciò accade.

L’acqua e l’industria della moda

Un uso sempre più frequente di fibre sintetiche ha permesso al settore della moda di raddoppiare in pochi anni la produzione totale di abbigliamento. Ciò ha fatto sì che, rispetto a 15 anni fa, venga acquistato il 60% dei vestiti in più, e che, dei tessuti prodotti, il 73% finisca in breve tempo in discariche e inceneritori. La creazione di indumenti produce alti livelli di inquinamento ambientale, dalla produzione allo smaltimento, ma, come riporta Sustainably-chic.com, ha soprattutto tre principali impatti negativi sull’acqua: elevato utilizzo, alti livelli di inquinamento chimico e alti livelli di inquinamento fisico da microfibra.

Utilizzo dell’acqua

Se consideriamo il primo step della produzione di un capo, l’ottenimento delle materie prime, notiamo come la stragrande maggioranza dei tessuti utilizzati sia sintetica e preveda quindi produzione di poliestere o altri materiali derivanti dalla plastica. Ma anche il cotone, nonostante sia migliore qualitativamente per la nostra pelle, impone un elevato dispendio di acqua per la coltivazione, essendo quella del cotone una delle colture che ne necessitano di più. La sola realizzazione di una camicia in cotone può richiedere fino a 2700 litri di acqua, il corrispettivo idrico che dovrebbe bere una persona in due anni e mezzo.

Inquinamento dell’acqua

La fase più dannosa per l’ambiente nella produzione di un capo è quella della “lavorazione a umido”. Dopo che il cotone è stato filato, viene lavorato a umido, momento in cui è tinto e trasformato in tessuto. Questo processo richiede l’utilizzo di oltre 8000 diverse sostanze chimiche, le principali usate per la tintura, che si stima contribuiscono al 20% di tutto l’inquinamento idrico mondiale. L’acqua usata per applicare i prodotti chimici ai tessuti viene infatti poi scaricata nei fiumi e nei corsi d’acqua.

Inquinamento da microfibre

L’inquinamento dell’industria della moda non termina con la produzione del capo d’abbigliamento. Molti tessuti sintetici come il poliestere e il nylon, durante i lavaggi, rilasciano nell’acqua microfibre che in realtà sono microplastiche. Alcuni studi hanno dimostrato che il 35% delle microplastiche trovate nell’oceano, nell’acqua dolce e perfine nel ghiaccio marino, deriva dal lavaggio di indumenti realizzati in materiale sintetico. E quando, infine, gettiamo i capi che non indossiamo più, la maggior parte di questi viene gettata in discarica con conseguente degradazione delle microplastiche che si disperdono nei terreni e nei corsi d’acqua.

L’introduzione di sostanze tossiche nelle fonti d’acqua è causa del danneggiamento di fauna, ambienti marini e d’acqua dolce, ma anche della salute umana. Nonostante i controlli di legge, gran parte del cambiamento deve provenire dall’industria stessa della moda che dovrebbe adottare misure per ridurre il più possibile l’impatto ambientale, prediligendo coloranti e fibre naturali. Una grande responsabilità, però, è anche nelle mani del consumatore finale. Acquistare capi solo per necessità prediligendo marchi il cui impegno ambientale è verificabile può sicuramente ridurre all’impatto ambientale dell’intero settore.

Evelyn Novello

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